“Caro diario” di Sara Petrolini
Come ogni dicembre, nei giorni che precedono il Natale ci si appresta alla realizzazione di uno sfolgorante, scintillante apparato decorativo. Ed io, ovviamente non mi tiro indietro. Ogni anno, preda di una irresistibile fascinazione prodotta dagli alberi altrui, mi cimento in questa mirabile opera creativa. Sento l’ambizione crescere, ma vedo i risultati ristagnare. E per una serie di fattori fra loro combinati in modo drammatico.
Nell’affrontare l’argomento bisogna certo partire dall’elemento imprescindibile, dalla tela bianca da colorare…cioè dall’albero. Il mio è disgustosamente sintetico e con un’anormale capacità di attrazione di polvere ed allergeni. Nonostante l’anno passato a chiusura delle festività io l’abbaia richiuso in n. 2 buste nere di immondizia spessissime ed enormi (che mio marito con lucidità estrema chiama “le occulta cadaveri”), avvolto in n.2 rotoli di scotch marrone e nastro da carrozziere -per evitare che la polvere penetrasse-, l’avventura inizia sempre con un’esperienza assimilabile allo shock anafilattico.
Ma procediamo con ordine: prima tento di rimuovere la matassa di scotch staccandolo, ma seguirne il percorso è impossibile; allora prendo le forbici ed inizio a tagliuzzare. Rimosso il nastro adesivo, mi dedico all’infame guaina di teli di plastica, ansimando per la quantità di polvere ingurgitata, e poi finalmente arrivo all’albero boccheggiando. Dopo aver sfogato le ansie e le frustrazioni di un intero anno trascorso, riducendo a brandelli l’infido involucro, posso procedere al montaggio e all’apertura dei rami.
Premesso che ho scelto l’albero finto perché la responsabilità di far crepare un essere vivente, seppur vegetale, non la volevo, devo confessare che fui guidata nella scelta anche da alte motivazioni:
1. vedere qualcos’altro crescere in casa mi metteva l’ansia: non so se le piante abbiano una fase adolescenziale, ma i miei figli la stanno vivendo, e l’idea che potesse farlo qualcun altro mi turbava. Pensa te se poi l’albero rifiutando l’autorità genitoriale crescesse troppo, o vivendo una crisi di identità crescesse arrampicandosi su muri e mobili anziché diritto e indipendente. Non riesco a “potare” nemmeno il sedano per fare il soffritto, figuratevi un abete.
2. egoisticamente pensavo di avere meno noia, perché un albero sintetico non perde le foglie.
Ecco devo ammettere che, sorprendentemente, sul punto numero 2 mi sono sbagliata, sicuramente; sul punto n.1 pure, probabilmente. Ogni anno l’albero mi sembra più grosso, aprire i rami partendo dal basso con il mal di schiena e la sciatica è un’impresa, e quando stendo i rami, tanti si staccano, e le foglie aghiformi ricoprono il pavimento. Risultato: dentro casa una sagoma oscura si staglia cupa e tragicamente visibile da ogni punto di vista.
La cosa più saggia, viste le premesse, sarebbe mollare tutto, ma invece mi lancio nell’impresa. Prima cerco di coprire i buchi o le zone dove è particolarmente spelacchiato con orribili filanti. Inizialmente seguo un progetto coerente, tipo: “quest’anno Albero antisfiga rosso e dorato”; oppure “stavolta natale chic blu e argento”. E per un po’ mi attengo pure al programma. Poi i filanti non bastano mai, ed allora già dopo i primi trenta minuti il progetto vira verso “carnevale di Rio”. Almeno i buchi non si vedono più.
Già esausta, mi inchino difronte all’albero, quasi venerandolo, in preda un’estasi mistica, quasi naturista, o spinta da reminiscenze di antichi rituali. Poi superata questa fase chiamo i miei figli, perché mi aiutino con le palle. E il gioco si fa duro, perché ne scassano una quantità preoccupante (e non solo metaforicamente parlando).Staccano i nastri per appenderle ai rami, le schiacciano camminandoci sopra, o le sistemano sull’albero senza coerenza e sistematicità, come se avessero rigettato a fontana marshmallows colorati, grandi come palle da tennis. I filanti cominciano a cedere, e la sciatica mi uccide. Provo a metterci una pezza, senza offendere la libera creatività dei mei figli; ma niente: la femmina vuole tre palle in fila sullo stesso ramo: una rossa, una blu, e una rosa. Io ho i conati, ma resisto. Sorridente e sofferente come una genitrice di altri tempi continuo a decorare con le amabili creature. Così alla fine dopo aver mosso tonnellate di insulse e disgustose decorazioni e speso ore a sistemare tutto l’opera è conclusa. Guardo l’albero, ma ho come l’impressione che manchi qualcosa. Mio figlio più grande mi tocca la spalla avvolto in un curioso filo, come fosse arrosto di vitella nella sua rete. Mi guarda e mi fa: «Mamma queste?»
Cazzo!! Non ho messo le luci.
Le luci andrebbero sistemate per prime. Ora si vedrà il filo, ora il gioco di riflessi sui decori è compromesso, ora dove le avvolgo che ho coperto ogni ramo con qualsiasi cosa? Sconvolta da questi interrogativi mi affido al fato: le tiro come fossero una rete da pescatore, facendole calare con una mirabile parabola dall’alto. Nemmeno le guardo, ma soddisfatta del gesto audace le accendo e …Luce fu! Anche per quest’anno l’albero è fatto!
Ps: mio marito non ha potuto partecipare alla realizzazione dell’albero, perché le creature gli hanno chiesto un presepe con cascata, montagne, lago, mulino e piccolo zoo. Mi ha detto a fine Novembre che avrebbe trovato un modo. È da allora che sta chiuso nella stanza di lavoro. Ogni giorno, i pasti gli vengono somministrati regolarmente.
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