L’ascensore, ovvero l’equilibrio -Parte V-

23 Mag 2020 | racconti brevi

Gli ascensori sono un po’ come i fatti della vita, a volte ti portano su a volte ti precipitano ai piani bassi. In certe occasioni, però, grazie ad un perfetto equilibrio di forze si fermano e si aprono le porte delle nuove occasioni. Ed ecco cosa accade in uno di quei fatidici momenti.

Quel giorno di maggio c’erano diverse persone alla filiale, ma il gruppetto più curioso era quello che sostava di fronte all’ascensore, pronto per iniziare la salita della giornata.

La signorina delle pulizie, Lorena, chiacchierava amabilmente con delle vecchiette che le chiedevano dove fossero certi uffici che dovevano assolutamente trovare e nel mentre, appoggiata al suo carrellino, aspettava che l’ascensore arrivasse. Mentre se ne stava lì ferma non riusciva a staccare gli occhi dai flaconi di detersivo, stracci e varie, che con il pensiero stava efficientemente inventariando.

Perché le cose funzionassero ed il lavoro riuscisse bene era ovviamente necessario che lei avesse con sé tutti gli strumenti del mestiere e nelle giuste quantità. Mentre era così persa nei suoi pensieri, sentì un colpo dietro la schiena. Era un omone, un bel ragazzo, che l’aveva urtata distratto. Doveva essere uno dei manager dell’ufficio perché era molto elegante, vestito con un bel completo grigio, una cravatta blu elettrico ed una camicia bianca di un candore impeccabile.

«Mi scusi Signorina», le disse rapidamente mentre distratto guardava in terra. Lei seguì il suo sguardo ed alla fine incuriosita gli chiese:

«Ma ha perso qualcosa?»

Lui si fermò per un momento e le rispose un po’ titubante:

«Possibile».

«Ma in che senso?», fece eco lei.

«Nell’impatto credo di aver sentito qualcosa cadere. E poi sinceramente perdo sempre qualcosa».

Lorena fece una smorfia un po’ perplessa. Lei questo tipo non lo aveva mai visto prima. Normalmente iniziava il turno per le pulizie al mattino presto, quando per i corridoi e gli androni del palazzo circolavano solo poche persone. Ma quel giorno aveva attaccato più tardi, e poi portava i postumi di una brutta sbronza. Quindi un po’ rintontita non diede tanto peso alle parole dell’uomo. Anzi essendo una compulsiva dell’ordine e della pulizia, pensò che dovesse partecipare alla ricerca. Per qualche strano motivo il rimettere al suo posto questa cosa perduta era una sfida da cui non si poteva tirare indietro.

«Le posso dare una mano, se vuole: quattro occhi sono meglio di due».

L’uomo le fece un sorriso mostrando i suoi denti bianchissimi e per un secondo il suo volto si illuminò. Poi si rabbuiò di nuovo. Sembrò essere preoccupato da qualcosa ed iniziò a frugare nelle tasche. Ad un tratto esclamò, anzi imprecò:

«Cazzo, le chiavi della macchina».

«Ah, quindi le sono cadute le chiavi…»

«Sì potrebbe essere…»

Lorena, che era una donna molto dolce e paziente, si fece bastare il “potrebbe” e si convinse della necessità di ritrovarle immediatamente.

Iniziò a guardare sul pavimento. Cercava con attenzione, o meglio ci provava, perché a volte la mente le sfuggiva. Dimenticava il fatto delle chiavi, quando individuava casualmente nella ricerca, un pelucchio, un granello di terra, perfino un capello che sul pavimento appena pulito le era sfuggito.

Questa sfacciata ed impudente sporcizia che le resisteva la mandava fuori di testa e stava per perdere il controllo. Ad ogni nuova scoperta ringhiava e senza abbattersi cacciava fuori lo straccetto e lo spray disinfettante. Quello, l’uomo accanto a lei, la guardava rapito e speranzoso… Lei aveva un occhio fuori dal comune e se le chiavi fossero state lì le avrebbe sicuramente ritrovate.

I due erano a tal punto concentrati sulla ricerca, che non si erano accorti di bloccare l’accesso all’ascensore. Così, alle loro spalle si era creata una piccola fila…

Realizzarono che c’era gente in coda che aspettava solo quando un fattorino, un po’ sgarbato, gli disse:

«Capo, ma l’ascensore lo prendete o no?»

Lorena lo guardò sospettosa: aveva intorno alla suola degli scarponi tracce di fango. Terra che le sue scarpe dovevano aver preso almeno il giorno prima. E lui non l’aveva rimossa!

«Gira certa gente», bisbigliò sottovoce tanto che solo Gianni riuscì a sentirla.

Gianni, credendola infastidita dal tono del ragazzo delle consegne, rispose severo:

«No, no, vada! Stiamo cercando una cosa».

Ricevuto l’okay, la piccola folla alle loro spalle si mosse, li oltrepassò e salì sull’ascensore. Tutti sparirono, tranne una giovane donna, che parlando da sola faceva avanti e indietro poco distante da loro.

«Signora se vuole può salire, noi per il momento non lo prendiamo» le disse gentile Lorena.

Lei si fermò e le rispose:

«No guardi è presto. La ringrazio».

Poi riprese a camminare contando i suoi passi. Lorena rimase per un secondo ferma a fissarla.

È presto per l’ascensore? Pensò fra sé e sé. Oggi era la seconda volta che non capiva. Attribuendo la stranezza ad un fatto di percezione degli eventi, pensò che la sbornia del giorno prima avesse prodotto danni irreversibili al suo cervello. Così ritornò alla ricerca. Il bizzarro quadretto che si era formato davanti all’ascensore era dunque questo: da un lato c’era una donna, una nuova dell’ufficio, che camminava su e giù come una tigre in gabbia; dall’altra stavano Lorena, che china a terra inveiva e spruzzava disinfettante, ed un tipo elegante che si piegava e rialzava a tratti scuotendosi i pantaloni con forza. Era chiaro che l’usciere del palazzo avrebbe avuto di che raccontare durante il poker del venerdì sera.

Ma le cose degenerarono ulteriormente quando al terzetto già in crisi si aggiunse Carlo, il direttore dell’ufficio personale della filiale.

Carlo si avvicinò silenzioso a Lorena che era china in terra. La osservava con curiosità. La ragazza alternava imprecazioni a gridolini di gioia e soddisfazione, mentre con la mano ispezionava la superficie del pavimento. Nel corso della sua indagine aveva rinvenuto non pochi tesori: una puntina rotta, un ago per cucire ed addirittura un orecchino. Era ovvio che un simile tesoro andasse restituito. Così quando vide le scarpe di Carlo si tirò su ritta e lo salutò contenta:

«Salve, Signor Carlo!»

«Buongiorno Lorena».

Il signor Carlo era un uomo molto gentile.

Era però un tipo particolare, difficile da decifrare.

Combattuto fra il chiedere e non chiedere a Lorena cosa stesse facendo, la fissava. E così andò avanti per un po’, fintanto che fu lei ad interrompere il silenzio.

«Signore, ho trovato questo in terra», affermò lei orgogliosa della scoperta

«Mhmm», rispose lui.

Lorena che non capiva se il mugugno fosse dovuto alla disapprovazione, visto che lei non aveva fatto un quadro preciso della situazione, precisò subito:

«Ovviamente va restituito…»

«Sì!» disse lapidario Carlo, mentre le gambe cominciavano a tremargli: all’orizzonte c’era un nuovo problema da risolvere, nuove decisioni da prendere.

Lorena, per mostrare la sua efficienza, gli fece un rapido sunto di tutte le opzioni possibili:

«Si potrebbe lasciarlo all’usciere; oppure al desk dell’ufficio di sopra? Ecco, c’è pure la guardia giurata, è meglio darlo a lui?»

Le tante opzioni cominciarono ad offuscare la mente di Carlo, che rintontito rispose di nuovo con un secco “Si”.

«Sì quale?» chiese Lorena.

«Quale cosa?» fece eco Carlo.

Lorena, senza mutare accento o atteggiamento, caparbia continuava, mentre sul volto di Gianni si dipingeva lo sgomento e Lia finalmente interrompeva la sua maratona.

«Che facciamo con l’orecchino», intendevo.

«Esatto! E che facciamo?»

Per un momento i due si studiarono sospettosi poi un silenzio imbarazzato scese fra loro.

Intervenne a quel punto Gianni che disse:

«Sentite datelo a me questo orecchino».

Lorena per un momento, fu presa da un dubbio ed imbarazzata disse:

«Mi scusi, non c’avevo pensato».

E Gianni rispose:

«Ma pensato a che?»

«Pensato che fosse suo».

«Ma non è mio!»

«E allora che se ne vuole fare?», domandò lei istintivamente

«Be’ non saprei. Innanzitutto toglierlo a voi due».

Visto che i tre senza motivo cominciavano a battibeccare e che Lia aveva l’ossessione che ogni genere di “imprevisto” potesse rallentarla, sbuffò e disse:

«Ma sarà di qualcuno che lavora qui! Datelo a me quando salgo lo consegnerò a qualcuno dell’ufficio».

Tutti si voltarono e la guardarono sollevati, poi però cominciarono a scrutarla in modo interrogativo.

Lei pensò che fosse dovuto al fatto che s’era intromessa senza conoscerli e istintivamente si presentò:

«Io sono Lia».

Ma i tre continuavano ad osservarla, così lei capì che c’era dell’altro. Carlo faceva degli strani movimenti piegando la testa sulla spalla sinistra, Lorena si toccava con fare sensuale l’orecchio sinistro e Gianni muoveva gli occhi ammiccando.

Okay, questi tre erano dannatamente strani, ma non poteva essere un tentativo di adescamento “di gruppo” e chiaramente non era un doppio a briscola. Ed in giro non c’era nemmeno odore di gas nervino.

“Rifletti Lia, rifletti”, si disse nella testa e poi ebbe l’illuminazione e si toccò l’orecchio:

«E’ mio!»

Tutti guardarono al cielo in atto di gratitudine, come se avessero ricevuto la grazia: Lorena aveva liberato il pavimento da ogni corpo estraneo presente; Gianni per una volta non era stato il solo a perdere a qualcosa e Carlo aveva evitato di prendere decisioni prima di avere timbrato il cartellino.

Lia invece pensò che la perdita dell’orecchino fosse un chiaro segnale che fosse giunta l’ora di smettere di temporeggiare. Così disse:

«Adesso basta, prendiamo l’ascensore!»

E per qualche strano motivo, affascinati dal tono deciso di Lia, gli altri tre decisero di prendere l’ascensore. Non si domandarono nemmeno, in vero, se ne avessero la necessità.

Le porte si aprirono ed iniziarono la salita.

Gli ascensori in questi stabili sono enormi: scatole di latta fuori formato per raccogliere fino ad una quindicina di sardine che, schiacciate per occupare bene ogni centimetro, se ne vanno su e giù. Passano da un piano all’altro a volte felici, a volte frustrate o addolorate come se si spostassero da un girone dell’inferno all’altro.

Nel presente invece l’atmosfera era diversa. Innanzitutto, anche se spazio ce ne era in abbondanza, nessuno era voluto salire con Lia, Lorena, Gianni e Carlo. Erano solo loro quattro. Non erano frustrati, non erano arrabbiati e nell’ascensore andava una buffa musichetta anni 80, una colonna sonora bizzarra che li faceva sorridere allegramente. La faccenda dell’orecchino si era felicemente conclusa ed in pochi minuti, raggiunti i loro rispettivi piani, sarebbero tornati ad essere estranei gli uni per gli altri. Ma mentre si preparavano a recuperare la loro routine, cominciavano a riaffiorare le solite manie.

Carlo non sapeva a chi attribuire la responsabilità maggiore per lo scempio di quella canzonetta: “era più colpevole l’autore del testo o il compositore”, si domandava nella sua testa. Lia era in ansia per il colloquio ed il ricorrente suono dei campanelli del ritornello la faceva sobbalzare ogni volta; Lorena, coi postumi della sbronza percepiva come colpi in testa i “lalala” della canzoncina, ed il testo ridicolo faceva perdere a Gianni il filo logico dei suoi ragionamenti. Doveva capire come tornare a casa nel caso in cui avesse veramente perduto le chiavi della macchina.

Mentre erano persi ognuno nei suoi drammi, l’ascensore sobbalzò, la musichetta perse il ritmo diventando una sorta di lamento e la luce traballò per un attimo. I quattro sul momento si irrigidirono, ma mantennero il controllo. Poi l’ascensore si fermò definitivamente. Sulle prime nessuno proferì parola, pensarono che fosse una cosa temporanea, ma quando furono consapevoli che i minuti passavano cominciarono ad allarmarsi.

«E adesso?», fu Lia la prima a parlare.

Gli altri fecero spallucce.

«Ma voi lavorate qui?»

«Sì», i tre risposero in coro e si scambiarono un ‘occhiata.

«Va be’, vi sarà già capitato».

«No, mai», ammise Lorena.

«La solita sfiga», ringhiò Lia «se l’avessi preso 5 minuti prima non avrei fatto tardi».

«Succede sempre così», rispose Lorena per consolarla, mentre alitava sul microfono dell’assistenza e lo puliva con la pezza. Lia era a bocca aperta.

Lorena rispose al suo sguardo dicendo:

«Non è igienico accostarsi se non è pulito».

«Capisco», sorrise Lia e poi si voltò da un lato sgranando gli occhi.

«Forse dovremmo suonare per l’assistenza», propose timidamente Carlo.

«Direi» confermò Gianni.

«Sì, sì, ora potete: è pulito», li autorizzò Lorena.

Ma in quei pochi secondi ogni certezza sul da farsi per Carlo era svanita:

«O forse sarebbe meglio chiamare l’ufficio?» balbettò.

«Facciamo entrambe le cose… però io il numero dell’ufficio non ce l’ho», disse Gianni frugando nella tasca della giacca «credo di aver perso il telefono».

A queste semplici parole Lorena scattò e cominciò a perlustrare il pavimento.

«Scusi, ma che fa?» le chiese Lia.

«Controllo, non si sa mai».

Lia fece un respiro profondo, guardò l’orologio e si disse solo:

«Ho ancora 10 minuti».

«Allora chi posso chiamare?» si toccava il mento Carlo, mentre Gianni chino in terra rovesciava la borsa per cercare il telefono e Lia contava ad alta voce i secondi; Lorena da parte sua a volte spruzzava spray a terra a volte alitava e lucidava le superfici riflettenti dell’ascensore. Il paradosso è che presi dai loro drammi personali avevano perso d’occhio la situazione generale: ciascuno preda delle proprie nevrosi non s’accorgeva di quelle degli altri.

Ma ad interrompere questo strano equilibrio fu la luce dell’ascensore. La lampadina ronzava e faceva dei suoni talmente inquietanti che tutti si voltarono a guardarla.

La luce intermittente li riportò alla situazione attuale:

«Ma che possiamo fare?», sospirò Lorena.

«Non lo so, ma qui non c’è campo», constatò Carlo.

«E questo non funziona!» sospirò Gianni pigiando e ripigiando sul bottone dell’assistenza.

«Quindi?» Chiese in ansia Lia.

«Quindi aspettiamo che qualcuno si ricordi di noi», disse Gianni.

In realtà, la situazione non era così drammatica, come poteva sembrare ad una prima analisi, perché il polverone che avevano tirato su battibeccando poco prima di fronte all’ascensore non li aveva fatti passare inosservati. Ed era ben chiaro a tutti che i quattro poveri cristi fossero rinchiusi insieme. Tuttavia alcuni presenti valutarono il fatto senza troppa apprensione e pensarono che fosse un bene che tutti e quattro i tipi più bislacchi dell’edificio fossero insieme ben lontani dagli altri. Mentre, comunque, si prodigavano nella ricerca dei soccorsi per pura carità cristiana, quelli se ne stavano in balia degli eventi.

Nell’ascensore la reale percezione del tempo cominciava sempre più ad alterarsi e quelli temendo che non ne sarebbero più usciti, pensarono che fosse il tempo delle confessioni. Che poi, ma dove mai s’è sentito che uno sia morto in un ascensore? Cioè, non è che si stipulano assicurazioni sulla vita prima di salire in ascensore. Insomma il fattore rischio era certamente minimo. Tuttavia, una certa malinconia, prodotta dall’apparente incertezza sul futuro sembrò affliggerli e decisero di condividere le loro miserie.

La prima a iniziare il racconto fu Lia, ovviamente: la sua smania d’anticipo la spinse a fregare sul tempo tutti gli altri. Allora scivolò in basso puntando la schiena su una parete dell’ascensore e si mise seduta in terra.

Una profonda tristezza, un senso tremendo di smarrimento pervase Lorena, che con gli occhi pieni di pianto apostrofò l’altra:

«Ma, ma, signorina…» balbettò

«Sto bene, non si preoccupi…»

Come non avendola affatto udita, Lorena continuò:

«Ma in terra è sporco…»

Come un’eroina tragica in balia di moti profondi dell’anima, ancor più colpita da questa amara verità Lia si accasciò sempre più sofferente ed iniziò:

«Volevo solo fare il mio colloquio, fare una bella figura e guadagnarmi il posto, ma niente! Niente, come al solito».

«Ma in fondo non è detto che non riesca» disse Carlo per consolarla, vedendola particolarmente triste».

«E come potrei fare?», ribatté lei.

Ecco, certe volte le persone che sulla carta sono le più sbagliate per aiutarti hanno le risposte giuste. Carlo, vedendo Lia così sconfortata e priva di risorse, per la prima volta in vita sua sentì la necessità di prendere una decisione e volle intervenire:

«Quando arriveremo in ufficio andremo a parlare insieme col direttore del comparto che l’aspettava e troveremo una soluzione».

Lei annuì. In quei pochi momenti passati tra il loro primo incontro e quella loro reclusione forzata la ragazza era molto cambiata: da belva feroce in gabbia s’era mutata in una ragazzina in cerca di conforto.

E Carlo? Carlo, tramortito lui stesso dal suo slancio iniziale di pragmatismo, ripiombò nel solito labirinto di “se”, “ma” e “boh”, ma ogni tanto si voltava verso Lia e vedendola sorridere il peso dei suoi tormenti si alleggeriva.

Non riusciamo mai a cambiare del tutto noi esseri umani, ma a volte le circostanze ci spingono a smussare gli angoli.

E gli altri due?

Lorena sembrava aver fatto della ricerca dei beni perduti di Gianni, la sua crociata. Il senso di smarrimento che quello dallo sguardo tradiva era disarmante. Continuava a vedere un vortice di macchie ed aloni ovunque. Spregevoli macchie e manate in ogni dove e provava un sincero disgusto quando abbassava gli occhi sul lurido pavimento dell’ascensore; ma quello che si frugava nei vestiti alla ricerca di qualunque cosa la divertiva da morire. Quando lo scopriva a vibrare e farsi scuotere le tasche, sorrideva e stava pronta a raccogliere qualunque articolo precipitasse a terra. Ormai Lorena aveva avviato un’efficientissima catena di montaggio. Con la mano destra puliva, con la sinistra raccoglieva le cose di Gianni e gliele restituiva. Lui dal canto suo aveva il petto pieno di un profondo senso di gratitudine. Poveraccio, aveva perso da tempo la fiducia delle donne, ma oggi recuperandola perdeva ogni remora a farsi vedere come era: ai limiti della gestibilità.

Quando poi lei tolse un capello scuro che macchiava in modo inaccettabile ed invadente la candida camicia di lui, Gianni capì come il loro fosse un incontro di anime.

Gianni e Lorena così flirtarono a lungo; Lia e Carlo pianificarono ed organizzarono i loro impegni. Lui indeciso su quali cose fare ed in che ordine farle si mise seduto a terra vicino a lei, si allentò la cravatta e si appoggiò alle spalle di lei. Lei con carta e taccuino registrava gli orari e la durata degli appuntamenti. Non lo tormentava, non gli chiedeva cose, non aggiungeva cose, ma gli dava consigli amabile e con dolcezza. Quando poi lei gli rivelò il nome di chi l’aspettasse per il colloquio capì di essere lui stesso il fortunato. E considerando che la ragazza fosse un tesoro ed un aiuto prezioso, non volle più lasciarla andare e non solo per mezzo dei vincoli contrattuali.

Dunque quale è l’insegnamento di questa breve storia? Che non c’è insegnamento, che non c’è una morale di cui fare tesoro, perché nessuno conosce la regola per la perfezione. Noi tutti siamo tragicamente imperfetti, siamo un pacchetto di nevrosi assortite in quantità e gusti vari. Tante volte non funzioniamo, ma se per miracolo si raggiunge il giusto equilibrio, cioè si trova un aggancio imperfetto, ma che tiene, si scopre la felicità.

E allora?

Allora, quando il guasto fu riparato e le porte dell’ascensore si aprirono tutti applaudirono all’evento. I quattro erano salvi e la routine di ogni giorno era ripristinata. Le “sardine” in attesa fuori dall’ascensore, già dimentiche del guasto erano pronte a litigarsi un piccolo spazio per una nuova salita.

Loro, invece, misero piede per la prima volta su una terra diversa: una terra in cui per quanto ci si senta indecisi, a volte  si trova la risolutezza per aiutare gli altri; in cui si è distratti e sbadati, ma non bisogna vergognarsi per questo; una terra in cui perdere tempo ti fa riscoprire la complicità con gli altri; e la mania compulsiva di mettere in ordine fa sentire gli altri al sicuro e coccolati.

Su questa nuova terra, però, i quattro pionieri vollero rimanere insieme. E certe affinità stabilirono presto i giusti abbinamenti.

Pochi mesi dopo il loro incontro Lia sposò Carlo. Era troppo presto ovviamente, ma Carlo ne fu contento e non mostrò mai interesse per certi pennuti rari della Scandinavia o per i fiordi del nord. Anzi semmai ridusse drasticamente i suoi interessi, confessando a Lia che odiava declamare in latino e dipingere a pointillisme. Lei fu ben felice, perché pensò che arrivare sempre puntuale ad una tale mole di appuntamenti sarebbe stato molto difficile. Presto trovarono un modo alternativo di trascorrere il tempo libero, tanto che Lia rimase quasi subito incinta. La bambina nacque, ovviamente, di…8 mesi.

Lorena e Gianni si sposarono più tardi, dopo circa un anno di frequentazione. Erano molto innamorati. Lui spesso perse le coincidenze per arrivare puntuale ai loro appuntamenti, ma per Lorena non era un problema: aveva il tempo di preparare pattine e percorsi antisporco in casa sua, se l’appuntamento era da lei; o di lucidare posate a bicchieri se l’abboccamento era al ristorante.

L’unica richiesta che stupì qualche volta Gianni era quella della camicia bianca. Lei voleva che lui ne indossasse una ogni volta che si vedevano. Lorena trovava afrodisiaco il candore di quella camicia, l’assenza di pieghe sul tessuto. E così alla fine convolarono a giuste nozze.

E l’ascensore che fine fece? Rimase sempre lì sicuro ed efficiente, a raccogliere e trasportare manie e nevrosi, ma non si fermò mai più.

Tutto ciò non sfuggì all’occhio attento dell’usciere. Lui, vedendo nei fatti un disegno superiore, da quel giorno fino a che andò in pensione, salutò tutti loro con un sagace motto: «Corsa prenotata per quattro?»

Non riusciva proprio a vederci la casualità in un incidente così provvidenziale per i quattro disgraziati.

Gli altri Racconti Brevi di Latte e Biscotti:

LIA, Parte I
GIANNI, Parte II
LORENA, Parte III
CARLO, Parte IV
L’ASCENSORE, Parte V

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